Eppure quello della depressione post parto è un tema che esiste, è un problema tangibile che in generale si scansa molto volentieri. Un po’ come la polvere che si nasconde sotto il tappeto, non la vedi ma sai che è li.
Non so se io ne abbia sofferto o meno ma so che sono tornata a casa, ho portato con me brutti ricordi relativi al parto e non sono stata bene. So che spesso ho pianto, so che mi sono sentita smarrita. So che guardavo il bambino, lo osservavo nell’incantevole perfezione dei neonati, sentendomi spesso inadeguata. So che mio marito ha capito e si è affrettato a cercare una persona che il pomeriggio mi aiutasse con il bambino e soprattutto che mi facesse compagnia mentre lui era al lavoro. So che quando mi abbracciava avevo spesso le lacrime agli occhi. Non c’è stato bisogno di etichettare nulla, ma sapevamo tutti e due che non ero al massimo della forma.
So che guardavo il bambino e mi domandavo: davvero sono in grado di capire i suoi bisogni? Sto facendo bene? Perché non mi sento sempre felice come credevo? Poi so anche che come è venuta, è passata, qualsiasi cosa fosse. E ho iniziato a godermi questa esperienza come merita di essere vissuta.
Sono mesi che ne voglio parlare, ma per farlo dovevo trovare la persona giusta per questa pagina e per tutte le mamme che la seguono. Ho avuto modo di conoscere la dott.ssa Brunella Villari, psicologa e specializzanda in psicoterapeuta familiare e ho trovato in lei non solo una donna competente ed empatica, ma quella spontaneità e dolcezza che mi hanno fatto venire voglia di alzare il tappeto e vedere una buona volta che cosa c’è lì sotto. E se davvero fa paura come crediamo.
Depressione postparto: “Per farci capire, dobbiamo mostrarci”
Dalle vostre esperienze, da quello che mi confidate, ho stilato un elenco delle domande più ricorrenti. Ecco le risposte della Psicologa Brunella Villari.
È possibile che la gravidanza e più in generale la maternità non siano esclusivamente fonte di gioia ma anche di rabbia, tristezza e frustrazione?
La funzione di concepire, crescere e prendersi cura di un figlio viene mostrata dal punto di vista biologico, sociale e psicologico come qualcosa di naturale, spontaneo, totalmente sotto il controllo della donna che, viene dipinta come assolutamente consapevole di cosa la aspetta, quali difficoltà si troverà ad affrontare e soprattutto come dovrà risolverle.
Tutto questo, oltre a rappresentare un fardello per chi di figli non può o non vuole averne, crea una grande mole di aspettative attorno all’esperienza della maternità. È molto frequente infatti che le neo-mamme riportino di scontrarsi con una realtà che si presenta diversa da come l’avevano immaginata, come se nel profondo non fossero preparate alla complessità dell’esperienza, sia dal punto di vista emotivo che pratico. Il vissuto comune è una profonda disillusione e spesso rabbia verso una società che continua a descrivere in maniera irrealistica la maternità, ostacolando quindi la possibilità di fare spazio all’ambivalenza, soprattutto emotiva: è bello ma anche brutto, è facile e naturale ma anche difficile e macchinoso, sono felice ma anche triste e arrabbiata.
È indubbio che la maternità rappresenti un viaggio potente, ricco di piccoli cambiamenti ma anche di importanti e permanenti trasformazioni.
Il corpo della mamma che si modifica, diventando non più riconoscibile ma, nella sua trasformazione, fondamentale perché culla di una nuova vita. Un corpo che chiede alla donna di riscoprirsi in nuove vesti e di trovare un modo per amarsi di nuovo, diversa ma nel profondo sempre la stessa.
Una donna che diventa mamma, aggiungendo quindi un nuovo ruolo a quelli precedentemente assunti di figlia e compagna. È faticoso trovare nuovi equilibri tra tutte queste funzioni, cercando di bilanciare le proprie risorse in larga parte devolute alla cura del nuovo arrivato.
Una coppia a cui viene richiesto di allargarsi, di fare spazio ad un terzo che prima non c’era e che adesso chiede attenzioni, amore, tempo e cure. È faticoso assestarsi, dividersi i compiti, sostenersi, unirsi ma rimanere comunque a tratti soli, ognuno con la propria individualità.
Anche a nonni, zii e altri parenti viene richiesto di impegnarsi in nuovi compiti, di sostenere, per quanto sia nelle loro possibilità fare, la nuova piccola famiglia. Anche questo sembra essere un aspetto di cui si parla poco. La famiglia allargata, pur rappresentando una risorsa molto importante in quanto rete di sostegno per i neo-genitori, è spesso coinvolta in dinamiche complesse che turbano i già precari equilibri. La difficoltà ad accettare e spesso comprendere le scelte e le linee educative dei neo-genitori, spingendosi oltre i confini, a volte scavalcandoli, contribuisce a incrementare il vissuto di inadeguatezza e le tensioni e nervosismi già spesso presenti nella vita della nuova famiglia, impegnata nel processo di assestamento e adattamento al nuovo nato.
Spesso sentiamo parlare di Baby blues e di depressione post-parto. Quali sono i sintomi? Come si differenziano?
Mentre per alcune donne vi è un adattamento positivo, altre possono presentare delle difficoltà, non necessariamente patologiche. È in questo ultimo caso che si parla di “Baby blues”, una condizione transitoria e molto frequente, soprattutto nella prima settimana successiva al parto. La depressione post parto invece è un disturbo dell’umore che si manifesta con sintomi depressivi che perdurano per un periodo maggiore di due settimane (successiva al parto).
La differenza tra Baby Blues e depressione post-parto è sia nella durata che nell’intensità e pervasività. Il baby blues ha una durata breve quindi generalmente due o tre giorni fino ad un massimo di 2 settimane e si presenta come una condizione relativamente lieve. Al contrario, la depressione post-parto ha una durata maggiore di due settimane, esordisce più tardi (anche dopo 4/5 mesi dalla nascita) e si presenta come condizione invalidante e pervasiva poiché interferisce con le attività della vita quotidiana e con la capacità delle donne di prendersi cura di sé stesse e del bambino.
Non solo, la depressione post parto danneggia la qualità degli scambi relazionali tra la mamma ed il bambino e comporta spesso una ideazione depressiva anche relativamente al ruolo materno: sentirsi incapaci di prendersi cura del figlio, avere paura e sentirsi insicure nella sua gestione, percepire di essere isolate dal contesto più ampio della famiglia, vivere ambivalenza o sentimenti negativi verso il nuovo nato.
Per quanto riguarda i sintomi, nel caso di Baby blues, si potranno osservare sintomi lievi di tipo depressivo come tristezza, sbalzi d’umore, pianti inconsolabili, difficoltà a concentrarsi, ansia. Nel caso della depressione post-parto invece si osservano sintomi più acuti come irritabilità, eccessiva preoccupazione ed angoscia, problematiche relative al sonno (es. insonnia) o all’appetito (scarso/eccessivo appetito).. oppure ancora… sensazione di non provare emozioni, di non provare piacere a stare con il bambino oppure desiderio di stargli lontano, paura di non sapersene prendere cura.
Ci sono persone più predisposte di altre?
La depressione post parto ha una matrice fortemente biologica e credo sia più opportuno parlare di fattori di rischio. Il primo fra tutti è la familiarità quindi la presenza in famiglia (in senso stretto ma anche più ampio con la famiglia allargata) di disturbi depressivi e d’ansia.
Anche una pregressa storia depressiva, precedente quindi alla gravidanza, rappresenta un fattore di rischio. Assumeva farmaci? Li ha interrotti in modo consapevole e con il sostegno e la guida di un medico? Oppure ha interrotto spontaneamente senza rivolgersi ad un professionista?
Questo è un aspetto importante. C’è molto timore e cattiva informazione in merito ai farmaci durante la gravidanza. Molti farmaci, sotto prescrizione medica, possono essere assunti durante la gravidanza senza essere dannosi per il bambino. Quello della familiarità e della pregressa storia psichiatrica della donna sono elementi importanti: si riscontrano nel 50% dei casi diagnosticati di depressione post parto. Anche una forte ansia durante la gravidanza rappresenta un fattore di rischio.
Molto importanti sono anche fattori di natura ambientale come può essere la presenza di una gravidanza non desiderata e non cercata, un rapporto conflittuale o inesistente con il partner, una scarsa rete di supporto sociale così come eventi/periodi di vita stressanti: aborti, perdita del lavoro oppure uno stato socio-economico basso e difficoltà di questa natura.
Chiaramente come ci sono i fattori di rischio ci sono anche i fattori protettivi. È importante prestare attenzione a tutti i campanelli d’allarme, tutte quelle condizioni sotto-soglia che ci fanno pensare ad un disagio, una difficoltà che sta covando. Risulta essere d’aiuto preparare le persone che circondano la neo-mamma in ottica preventiva, diffondere maggiori informazioni relativamente agli aspetti che meritano di essere guardati con più attenzione in modo da non sottovalutare e sostenere e accompagnare la mamma verso le cure di cui necessita. Questo è importante per permetterle di vivere in maniera positiva questa fase di vita con ripercussioni positive anche per il bambino e la sua intera famiglia.
Spesso le mamme provano a manifestare le proprie emozioni alle persone vicine, ma non sempre vengono capite. Come sensibilizzare chi ci sta vicino a questo problema?
Beh diciamo che questo aspetto emerge come problematico in tante situazioni, anche diverse dalla maternità. È molto più frequente di quanto si creda che le persone si sentano non comprese nella propria difficoltà e di conseguenza si sentano ulteriormente appesantite dalla solitudine e dalla tristezza, con la tendenza ad isolarsi dicendo “cosa lo dico a fare che sto male, tanto non mi capisci”. Beh…questa risulta essere una vera e propria trappola.
Faccio un esempio per renderlo più semplice e intuitivo. Chiara è una donna che è cresciuta cavandosela da sola, mettendosi all’opera per risolvere i problemi in cui inciampava e in un certo senso silenziando i propri bisogni emotivi e i suoi stati d’animo, con l’idea che dovesse sempre tenere duro senza mai mollare un colpo. Un giorno un evento inatteso e molto triste colpisce la sua vita.
Il suo compagno Massimo si rende conto della sofferenza di Chiara e prova a chiederle come sta, nel tentativo di esserle di supporto. Chiara che in quel momento, in una situazione di fiducia e intesa, avrebbe l’opzione di aprirsi e lasciarsi andare, confidando la sua difficoltà e parlando delle sue emozioni…non lo fa oppure è vaga, dice cose ma in realtà non le dice chiaramente. Massimo finisce per non capire, molla la presa e torna a lavorare.
Ecco. Chiara dice: “nemmeno Massimo mi capisce”. In questo modo Chiara è ancora più convinta che Massimo, e quindi nessuno la capisca, e che la cosa migliore è rendere evidente e chiaro che è meglio cavarsela da sola.
È innegabile che a tutti noi piacerebbe poter essere capiti evitando la scomoda mossa di scoprirsi, mettersi a nudo e parlare delle proprie emozioni. Sarebbe bello, forse, se bastasse così poco per capirsi. Raramente capita che basti “guardarsi”. Nella maggior parte dei casi serve qualcosa in più. Siamo esseri umani e in quanto tali abbiamo delle potenzialità limitate. Per farci capire dobbiamo parlare, essere espliciti, mostrarci, confidarsi, appoggiarci, chiedere aiuto.
Il fatto che l’altra persona non sappia sempre leggere tra le righe non dice di lei che è una persona incapace oppure che non ci voglia bene oppure che non presti attenzione a noi.
Dice di lei che è piuttosto un essere umano.
Oltre questo… per rispondere alla domanda… direi di si. Credo sia importante sensibilizzare le persone che circondano la neo-mamma e fornire dei piccoli spunti di riflessione.
Il bimbo appena arrivato catalizza l’attenzione di tutti; coccole e regali riempiono la casa insieme ad allegria ed entusiasmo. A volte però dimentichiamo che affianco ad un bimbo appena nato c’è anche una mamma stanca e affaticata. Una mamma che fa i conti con le poche ore di sonno, il corpo dolente, i ritmi frenetici, i dubbi, le insicurezze, la difficoltà a chiedere aiuto per paura di risultare incapace, inadeguata. Ricordiamo quindi di posare uno sguardo dolce e premurose sulle mamme, di provare a cogliere nei loro occhi quanto stanno in quel momento provando. Una parola e un gesto di conforto sono più preziosi di quanto possiamo immaginare.
La tendenza infatti è quella di sminuire le difficoltà delle neo-mamme, spesso con l’obiettivo di motivare e spronare a reagire. “Dai forza ce la puoi fare”, “Dai lo abbiamo fatto tutti ce la farai anche tu”. Anche se le intenzioni solitamente sono delle migliori, questo suona alle donne come una ulteriore svalutazione delle loro capacità, come un ribadire la loro inadeguatezza. “Beh se dicono sia normale, io perché non ci riesco?”.
È importante quindi VALIDARE le emozioni delle donne. DARE SPAZIO E TEMPO ai loro vissuti. Anche se siete sicure che sopravvivranno, adesso non è questo quello di cui hanno bisogno. Hanno bisogno di sostegno, di sapere che c’è spazio anche per le emozioni negative e per il disagio che vivono.
Brunella, che cosa può fare uno psicologo in questi casi?
Direi che come ci sono stereotipi che circondano la maternità, ce ne sono tanti altri che circondano la mia professione. Si fa ancora molta fatica a mostrare le proprie fragilità. Si crede di non essere mai così disperati o in difficoltà da chiedere aiuto. Infondo, non sono mica matto!
Lo psicologo può intervenire non soltanto quando “è troppo tardi”, quando il disagio si è già cronicizzata o quando è già esplosa la bomba emotiva. Che poi chiaramente non è mai davvero troppo tardi: con l’alleanza terapeutica, la motivazione e l’aderenza agli obiettivi che insieme ci si prefissa, i problemi possono essere risolti; prima compresi, affrontati, sviscerati e poi piano piano risolti.
Lo psicologo può intervenire anche in ottica preventiva, già a partire dalla gravidanza, accogliendo i dubbi, le riflessioni, le perplessità della mamma. Accompagnandola in questo periodo di vita in cui vengono spesso al pettine nodi relativi all’infanzia della mamma, alla sua relazione con i genitori o con sé stessa.
Nell’incontro con uno psicologo la mamma può trovare uno spazio di cura personale, un momento di respiro e riflessione. Anche, a volte, un sano momento di silenzio.
Lo psicologo può accompagnare la mamma alla scoperta delle proprie potenzialità nel nuovo ruolo che si trova ad assumere. Può aiutarla ad elaborare i vissuti di colpa che fanno spesso capolino nella sua vita oppure anche a dare spazio e voce ai desideri e bisogni della donna, della moglie e della figlia che c’è in lei. Fare insomma un po’ di spazio anche ad altri ambiti e aspetti della vita che ci si sente spesso in dovere di sacrificare.
Lo psicologo può aiutare anche la coppia nell’essere coppia genitoriale e anche, contemporaneamente, coppia coniugale. Può sostenere nella comunicazione, nell’incontro e nello scambio di pensieri ed emozioni, nella strutturazione della quotidianità. Può sostenere nella definizione di confini chiari con la famiglia d’origine, per evitare fastidiose e ripetitive invasioni di campo.
Insomma, il percorso che si costruisce con lo psicologo è come un vestito cucito apposta per quella persona, un vestito che valorizzi, che faccia sentire a proprio agio e con indosso il quale ci sentiamo di poterci esprimere nella nostra complessità e unicità.
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