Perdere non é un concetto che va di moda, soprattutto di questi tempi, in cui chi vince é al contrario quello che ottiene, che guadagna, che accumula. A perdere invece diventi sempre più leggero, quasi inconsistente. E ti senti così inconsistente certi giorni che ti domandi se non hai perso anche una parte di te, mentre perdevi tutto il resto.
Io ho iniziato a perdere da quando ho perso mio padre. O meglio, quella situazione, improvvisa e surreale, ha scatenato come una sorta di effetto domino, e da lì ho creduto di aver perso tutto. I primi ad andare sono stati gli amici, eppure erano persone che frequentavo assiduamente da quindici anni, dicevo a me stessa. Perché? Perché ero più la persona di prima, perché non avevo più voglia di aperitivi e baldorie, perché ero cambiata. Niente di tutto questo, ma il vero motivo, io l’ho capito molto più avanti.
Poi sono stati i parenti, che nel mio caso erano persone che avevano fatto quasi delle comparsate intermittenti nella mia vita, nulla di più. E quella é stata un’ottima occasione per uscire definitivamente di scena, anche per loro.
Alla fine c’è stato il lavoro, un lavoro che amavo, ovvero scrivere pubblicità, ma che mi costringeva a sopportare contesti invivibili, fatti di pressione insostenibile, nottate al computer a preparare lavori per il giorno dopo, ambienti di lavoro disumani dove se sbagli, al minimo errore, ti ritrovi una sala chiusa con tre persone inferocite che ti gridano addosso. A un certo punto, tutto questo, é svanito. I mattoncini del domino hanno finito di girare, mi sono svegliata una mattina, non c’era più niente. Ho ricostruito tutto dal niente, lavoro, vita privata, ed é arrivato mio figlio. Eppure per giornate intere, per anni, mi sono domandata per quale motivo fosse svanito tutto così, all’improvviso. E come a volte capita, la risposta é arrivata qualche sera fa, quando avevo smesso di cercarla.

Perdere tutto, spesso non é come sembra
Qualche sera fa una persona che é entrata da qualche tempo a fare parte della mia vita mi invita al suo compleanno. Erano praticamente anni che non uscivo la sera, tanto che non sapevo nemmeno più come vestirmi per un occasione minimamente elegante. Morale, mi presento e trascorro la serata, allegra, senza troppi pensieri. Tornando a casa e ripensandoci bene i giorni seguenti osservo come mi sono sentita, cosa che ho imparato a fare negli anni. Mi sono sentita leggera, libera. Dopo tanti anni trascorsi ad aver paura di pronunciare la parola sbagliata, e con quella parola sbagliata di provocare chissà quali conseguenze, non ho avuto paura di essere come sono, di dire quello che penso. Ero io, e basta. Esattamente quello che non ero prima e che non facevo prima perché ero avvinghiata e intrappolata in una serie di rapporti che richiedevano altrettante implicazioni. O meglio, ero io, che per far funzionare quei rapporti, mi costringevo in diversa misura ad essere ciò che non ero. Lo facevo continuamente, ed era un problema essenzialmente mio. Era mio perché non avevo la forza di guardare in faccia alla realtà, ovvero che in tutta quella vita di prima c’era sempre meno di me.
In realtà a parte mio padre, che é stata l’unica dolorosa e reale perdita, il resto é qualcosa che probabilmente non avrebbe mai dovuto nemmeno esistere, quantomeno, non in quella forma. Non ho perso niente, semplicemente stavo troppo male per continuare ad aggiustare, medicare, riparare, tenere insieme. Ho smesso di sforzarmi, perché per sopravvivere dovevo pensare a me, ed é finito tutto, o meglio é finito quello che già non c’era da tempo, o che probabilmente non c’è mai stato. Mi ci sono voluti tanti giri a vuoto, tante porte in faccia, altrettanti dispiaceri, per capire che le unici rapporti che esistono per davvero, sono quelli dove la prima parola che li distingue si chiama reciprocità. Quando manca quella, che l’unico, vero e sensato presupposto affinché esistano, sono solo incontri. E certi incontri, é giusto che la vita se li porti via.

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