Periodicamente esce un articolo con un titolo più o meno così: “Il piccolo Tom compie otto anni e di 40 invitati nessuno si presenta”. Puntualmente vengono mostrate le immagini del bambino solo in mezzo ai piatti dei suoi personaggi preferiti, il festone, i palloncini per terra, e una torta enorme attorno alla quale nessuno se non i genitori intonerà la canzone del compleanno.
Questa volta la triste sorte è toccata a un bambino di 10 anni di Boston. La mamma ha spiegato ovviamente affranta che aveva inviato oltre 40 inviti ai quali avevano risposto in modo entusiasta “Che bellissima iniziativa, non mancheremo!”. La realtà poi é stata il contrario e il bambino, che desiderava tanto una festa a tema Avengers é rimasto ovviamente profondamente ferito.
Non me la sono nemmeno sentita di ricondividere qui le foto che circolano sul Web perché mi mettono molta tristezza e penso che questa sia una delle paure più o meno nascoste di ogni genitore: la solitudine dei propri figli, il timore che non creino veri legami. Ma il punto però qui non è nemmeno questo. Ho fatto questa riflessione due sabati fa, quando uno dei quaranta che aveva detto sì e poi non si è presentato avremmo potuto essere noi, al compleanno di una compagna di scuola di mio figlio, tra l’altro una di quelle alle quali é più legato.
Potrebbe essere mio figlio: ci abbiamo mai pensato?
Dopo pranzo iniziamo a dirgli di vestirsi, ma é domenica, si sta rilassando un po’ sul divano dopo una settimana di scuola, sport, varie ed eventuali ed esclama: “Non ho voglia di andare!”. Rispondo: “Per caso non ti senti bene?”. “No, mamma, è che non ho voglia sono stanco”.
Ci guardiamo in faccia mio marito ed io, e con uno sguardo abbiamo lo stesso pensiero: “Non se ne parla“. “Guarda che Emma ha preparato tutto stamattina. Ci sono i palloncini, c’è la torta, c’è una persona che farà fare tutti i giochi. Ha fatto tutto questo per trascorrere una bella giornata con i suoi amici, se tutti quelli che si alzano la mattina e dicono non mi va, dessero buca due ore prima lei si ritroverebbe sola”.
Mi osserva pensieroso: “Pensa se l’avessero fatto un mese fa, alla tua festa, a te. Preparavamo tutto e nessuno veniva. Come ti saresti sentito? Non si può dire di no all’ultimo minuto senza un vero motivo“. Non sono servite altre parole, é andato in camera sua a prendere i vestiti, e in dieci minuti eravamo in macchina.
Eppure lei è una sua amica, una bambina con cui gioca sempre. Ma i bambini sono volubili, a volte (giustamente, sono bambini) agiscono sull’onda dello stato d’animo del momento. Magari hanno iniziato a fare un gioco e semplicemente non hanno voglia di interromperlo, o sono distratti da altro. Non c’è sempre una grande dietrologia in certe risposte. Non immaginano quanto un loro gesto possa involontariamente ferire. L’empatia va coltivata. Siamo noi adulti (altrimenti che cosa ci stiamo a fare mi viene da chiedermi), che abbiamo il compito, uno dei tanti, a insegnar loro l’umanità, che cosa significa concretamente essere umani e agire da esseri umani, che cosa significa aver cura dei sentimenti altrui, oltre che dei propri.
In questo caso si trattava di una sua amica, ma anche se fosse stato un bambino con cui andava meno d’accordo non sarebbe cambiato assolutamente niente: abbiamo detto di sì e ci andiamo, ci aspettano. Pochi pensano a come si sentirebbero se quel figlio, da solo in mezzo ai palloncini, fosse il loro di figlio. Alla delusione, all’umiliazione, ai brutti pensieri e ai brutti sogni che farà su quella giornata. In fondo sarebbe bastato poco. Sarebbe bastato infilarsi le scarpe, e pensare anche solo per un minuto, pensa se succedesse a me. Dare sempre la colpa ai bambini è troppo facile.
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