Quando mio figlio era piccolo avevo un’idea diversa dell’amore per un figlio.
Ovviamente quando hai in braccio un neonato di sei mesi è tutto legato alla dolcezza e all’accudimento e pensi che quell’amore rimarrà sempre in quella forma e che quello significhi amare un figlio.
Ora che è più grande, la mia idea di amore ha a che vedere con il concetto di perseveranza; spesso mi rendo conto del bene che gli voglio dal numero di volte in cui ripeto le cose; il che però è inversamente proporzionale a quello che percepisce lui. Io so di volergli bene, lui sa che gli sto rompendo le scatole per qualcosa.
Voler bene è anche rendersi petulante ai suoi occhi.
In fondo sarebbe molto più comodo anche per me soprassedere su certe cose, abbozzare, far finta di niente, evitare di tenere il punto così come faccio. Lasciar correre: non solo eviterei inutili malumori ma mi renderei anche più simpatica certe volte.
Ma se so che qualcosa è giusto, a lasciar correre non ci riesco, non con lui.
Finisci di leggere quel capitolo del libro delle vacanze. E una e due e tre e quattro e dieci.
Anche questo è voler bene.
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